Mirra e la tragedia del non detto

Vittorio Alfieri fu il più grande tragediografo italiano; molte sono le sue tragedie degne di nota, tuttavia risale al periodo finale della sua carriera come tragediografo uno dei suoi risultati più alti insieme al Saul: Mirra.

Fu ideata nel 1784, stesa nel 1785 e verseggiata nel 1786 (il metodo di composizione di Alfieri era composto da tre diversi passaggi – o «respiri» come lui li chiamava -: «ideazione», consistente in una breve stesura in prosa dell’argomento e dello schema generale dell’opera; «stesura» cioè distribuzione, sempre in prosa, degli atti e delle scene particolari; «verseggiatura», cioè «porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia e leggibili». Ben inteso, questi erano tre passaggi indissolubili: se anche solo uno di essi non funzionava, la tragedia non veniva eseguita). Lo spunto è preso dall’episodio del X libro delle Metamorfosi di Ovidio: tema rarissimo e quasi unico nel mondo delle tragedie. Tuttavia, Ovidio serve solo come spunto per la macrostruttura, in quanto l’intera opera assume un carattere totalmente diverso: in Ovidio, Mirra smania per pervenire alla consumazione dell’incesto, e accetta di mettere in atto l’inganno progettato dalla nutrice, mentre la Mirra di Alfieri è estremamente inorridita dal suo pensiero incestuoso, tenta in tutti i modi di celarlo, fin quasi a morirne (e invero ne morirà uno volta svelatolo alla fine della tragedia).

Il motivo scatenante della tragedia è la punizione inflitta da Venere a Cecri, la madre di Mirra, per aver smodatamente vantato la bellezza della propria figlia («[…] più gente/ tratta è di Grecia e d’Orïente omai/ dalla famosa alta beltà di Mirra,/ che non mai tratta per l’addietro in Cipro/dal sacro culto della Dea ne fosse» III,3; vv.246-250). E, invero, sembra strano parlare dell’orgoglio di una madre per la bellezza della figlia come una colpa, ed effettivamente non si riescono a rintracciare personaggi “negativi” all’interno dell’opera: tutti sono volti al bene e tutti voglio che Mirra viva e che si sposi felicemente; persino il padre Ciniro, re dell’isola di Cipro, asserisce «[…] Padre, mi fea natura/ il caso, re»; quindi, a differenza di altri monarchi alfieriani, non antepone la ragion di Stato alla condizione di padre. Tuttavia, il contrasto della tragedia si svolge proprio qua: i personaggi intorno a Mirra vogliono che riveli il motivo principale della sua sofferenza, così da poterla aiutare a liberarsi da suo peso, però lei non può realmente dire cosa la faccia soffrire: dichiarare in presenza di testimoni la natura della passione equivale qui ad ammetterne l’efficacia, e a cederle. Quindi, l’opera è costruita tutta sul costante contrasto tra Mirra e gli altri personaggi tra loro solidali e concordi, quasi un dialogo tra lei e un “coro” ideale: un dialogo basato però, in assenza, sulle omissioni, sulle ambiguità, sulle interruzioni della protagonista, e su un ansioso e vano interrogare e proporre e sperare degli altri.

Il carattere straordinario di questa tragedia è il modo casto in cui viene risolto un tema che potrebbe sfociare in temi erotici e scabrosi, basandosi su una minuziosa analisi psicologica del danno provocato da quel pensiero così empio sulla protagonista, ma soprattutto sull’impossibilità umana di opporsi al volere divino, perché, sebbene Mirra provi in tutti i modi a resistere al suo amore delittuoso per il padre, alla fine sarà costretta a cedervi.

Esemplare di fiore di mirra

Il modo in cui avviene la rivelazione del delitto fa precipitare noi stessi nel dolore provato per tutta la tragedia dalla stessa Mirra: alla fine del quarto atto viene svolto il matrimonio fra la ragazza e Pereo (figlio del re dell’Epiro; fidanzato che Mirra stessa ha scelto – e questo mostra ancor di più l’amore dei genitori verso la figlio, considerando che mai un re permetteva alla figlia di scegliere liberamente i propri amanti), tuttavia il dolore provato dalla fanciulla è troppo lacerante e in un impeto di rabbia – rabbia involontaria, in quanto i suoi sentimenti sono di natura divina – ne provoca l’annullamento: «[…] le Furie ho in me tremende. Eccole; intorno/ col vipereo flagello e l’atre faci/ stan le rabide Erinni: ecco quai merta/ questo imenèo le faci…». Pereo dunque abbandona Mirra, le promette che mai più vedrà quel suo «[…] odïoso aspetto…» e va nelle sue stanze a suicidarsi. Il quinto atto si apre con Ciniro adirato che richiama la figlia; dopo un lungo confronto Mirra non riuscirà più a nascondere i suoi sentimenti e sarà costretta a rivelare il suo empio peccato al padre: «Oh madre mia felice!… almen concesso/ a lei sarà… di morire al tuo fianco…».

 A ben vedere, la colpa di Mirra, più che consistere nella condanna ad amare il padre consta nella forzata rivelazione ai familiari di questo amore e nell’orrore, misto a pietà, che desterà in essi («Padre infelice!… E ad ingoiarmi il suolo/ non si spalanca? Alla morente iniqua/ donna appressarmi io non ardisco;… eppure,/ abbandonar la svenata mia figlia/ non posso…» Ciniro ; V, 3, vv.201-205 – si noti con quanta maestria Alfieri usa le inarcature e i puntini di sospensione per sottolineare il dolore di Ciniro, sia come uomo su cui ora ricadrà l’onta del delitto di Mirra, sia come padre che ha perso la propria figlia!). E come sola vive, così muore sola, poiché il padre, la madre, la nutrice rimangono sbigottiti e sgomentati allo scoprire il tremendo segreto della ragazza. 

In realtà, Mirra rimane sostanzialmente innocente, perché è colpevole soltanto chi vuole peccare o compie coscientemente qualche azione infamante; non  lo è invece per coloro che apprendono il suo peccato, ma non ne conoscono le superiori fatali motivazioni e ignorano, soprattutto, la storia segreta della ragazza; una storia che sottolinea ulteriormente l’innocenza di Mirra, la sua volontà di non appagare e assecondare il suo affetto nefando, ma, anzi, di combatterlo e di rimuoverlo con tutti i mezzi, sino a rassegnarsi all’impotenza, o, anche, fino a scoprire proprio nel padre Ciniro la persona che la comprende di meno, che ricorre alla sua autorità regale per farla parlare, per indurla a discolparsi di aver rifiutato le nozze con Pereo, che pronunci sulla sua reticenza a collaborare parole di severa riprovazione e di condanna.

Al contrario delle altre tragedie alfieriane, qui non è presente un vero e proprio tiranno, anche se, mutatis mutandis, Mirra può essere considerata il tiranno di se stessa: nel suo animo dilaniato dai dissidi, si scontrano Eros e Thanatos, desiderio di una vita normale e pulsione incontentabile dalla morte. E proprio la morte rappresenta la tragedia finale, con la quale Mirra si libera da una disumana, insopportabile condizione di vita, si salva dal peccato e conserva la sua innocenza interiore; ma non può fare a meno di apparire «rea» (o come precisato in liminare dell’opera da Alfieri «men rea») ai familiari, che hanno compreso, inorriditi, il suo abominevole amore. L’affermazione della propria integrità psicologica si unisce in Mirra suicida alla convinzione di essere ritenuta colpevole dai suoi: per questo il suo suicidio è insieme una vittoria e una sconfitta.