La Gerusalemme liberata in musica

Annibale Carracci, Rinaldo e Armida (1601 circa)

Nel giugno del 1581 venne data alle stampe la prima edizione autorizzata della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso; opera estremamente importante nel panorama letterario italiano, destinata a dar vita a due schieramenti contrapposti fra chi sosteneva il capolavoro tassiano e chi sosteneva l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. L’opera nacque in un contesto che vedeva l’affermazione degli ideali controriformistici a seguito del Concilio di Trento (tenutosi dal 1542 al 1563) e le influenze di questa nuova ideologia (o per meglio dire, nuova costrizione religiosa) sono frequenti nel poema tassiano e, non per niente, Tasso rivedrà più volte la propria opera dandone più edizioni a stampa per paura della censura cattolica e per far in modo che la sua Liberata fosse più congruente possibile al nuovo spirito cristiano nato a seguito del Concilio di Trento; infatti, l’intera opera potrebbe essere vista come un tentativo non solo di delectare, ma soprattutto di docere: i cristiani allora dovevano riscoprire la propria compattezza, combattendo per difendere la propria fede dalle minacce esterne, ovvero i Turchi, ed interne, ovvero le spinte disgregatrici figlie della riforma luterana.

La Gerusalemme liberata sarà destinata ad avere grandissime influenze sia in ambito letterario (si vedano ad esempio le opere letterarie barocche) sia in ambito artistico, soprattutto in ambito musicale e teatrale, dove saranno frequenti le riproposizioni di singoli episodi della opera tassiana e così facendo, invero, travisando l’intento originario di Tasso di creare un’epopea narrante le azioni dei prodi crociati cristiani.

L’“episodio” più scelto all’interno della Gerusalemme liberata risulta essere l’amore fra la pagana Armida e il crociato Rinaldo: Armida è la nipote del famoso e nobil mago Idraote, signore della città di Damasco. Ispirato dal demonio (l’angelo iniquo) chiede alla nipote, in nome dell’amore che porta alla sua terra (Per la fé, per la patria il tutto lice) di recarsi al campo cristiano e di tener lontani i guerrieri dalla battaglia – anche Goffredo, se è possibile – utilizzando l’inganno e la seduzione: «Prendi, s’esser potrà, Goffredo a l’esca/ de’ dolci sguardi e de’ be’ detti adorni,/ sì ch’a l’uomo invaghito omai rincresca/ l’incominciata guerra, e la distorni».

François Le Moine, Messengers of Godfrey of Bouillon in Gardens of Armida (1735 circa)

 Quindi, Armida si reca al campo dei crociati e qui riesce a sedurne la maggior parte e invogliarli a seguirla; fra i pochi che non rimarranno soggiogati dal fascino della maga vi è Rinaldo che si mette subito sulle tracce di Armida e dei compagni per liberarla. Armida decide di vendicarsi su Rinaldo e quindi lo fa cadere in un sonno profondo con l’intento di ucciderlo.

Come esempio di analisi, si prenda in partenza la riproposizione dell’amore fra Armida e Rinaldo nell’opera di Quinault con il libretto di Lully; in particolare ci si concentri sul secondo atto dell’opera, caratterizzato nel finale dall’aria «Enfin il est en ma puissance» che rappresenta il punto di svolta più importante all’interno dell’opera di Lully e Quinault: Armida, sul punto di uccidere Rinaldo, improvvisamente tentenna, non riesce a colpire l’uomo che l’ha così tanto offesa non cadendo ai suoi piedi come i gran parte degli altri crociati e si rende conto di amarlo. L’amore la colpisce all’improvviso, trovando vane difese dalla parte raziocinante di Armida che non riesce più a resistere; la musica segue perfettamente questo cambiamento sentimentale così radicale nella protagonista: all’inizio è gioiosa, rispecchiante un trionfo – che null’altro può essere in quanto finalmente Armida è riuscita ad incantare il suo acerrimo nemico e ha quindi l’occasione di ucciderlo – con una declamazione ben scandita e rappresentante gioia da parte di Armida, ma poi, quando il colpo sta per calare sul corpo esanime di Rinaldo, la sua mano si ferma, la musica si incupisce passando a tonalità minori e il cantato di Armida si fa più labile, caratterizzato qui più dall’incertezza e dalle pause che dalle gioie di prima. Il secondo atto si conclude quindi con un colpo di scena: la protagonista passa infatti dall’odio per Rinaldo all’amore e proprio da qui partirà il terzo atto. Si apre con «Ah! Si la liberté me doit estre ravie» in cui Armida esprime tutto il suo dolore e tutta la sua paura nello scroprirsi innamorata di Rinaldo. Finalmente parla chiaramente e facendolo rivela che non più desidera di ucciderlo, bensì languisce d’amore per lui e sia il cantato che la musica trasmettono il dolore di Armida e i suoi dubbi.

Armida si prepara a chiamare Le Haine per liberarla dall’amore, ma al momento cruciale in cui la rappresentazione dell’Odio si accinge a liberarla dall’amore che le costringe il petto, lei si tira indietro e prega le Haine di fermarsi, rivelando di voler tenere questo amore per Rinaldo, pur sapendo che non potrà mai essere un amore vero in quanto lei sa bene che lui la ama solo perché è sotto sortilegio; irato l’Odio pronuncia una terribile profezia contro Armida dicendo che presto la gloria cui lei ha strappato il cavaliere, lo strapperà via dalle sue mani e vane saranno e le sue lacrime e il suo fascino (la profezia e il sogno premonitore erano dei topos in età barocca). Quindi, neanche in questo terzo atto viene ricreato quell’equilibrio rotto originariamente da Rinaldo, anzi, il tutto si interrompe con un momento di grandissima tensione scenica destinata ad aumentare nel quinto atto con la più grande, nonché finale, catastrofe: i commilitoni di Rinaldo raggiungono il luogo ameno di Armida e Rinaldo e facendogli vedere il suo volto riflesso sullo scudo riescono a farlo tornare in sé, quindi partono alla volta del campo crociato; nel mentre Armida, scopertasi abbandonata, si lancia in pietose grida di dolore e di rabbia furente per poi giurare vendetta a Rinaldo; ed è interessante notare come qui lo stesso Tasso, nel momento in cui Armida raggiunge Rinaldo e lo supplica di rimanere, l’avesse rappresentata come se si stesse accingendo a recitare in un teatro davanti a un pubblico:

«Qual musico gentil, prima che chiara/ altamente la voce al canto snodi/, a l’armonia gli animi altrui prepara/ con dolci ricercate in bassi modi/, così costei, che ne la doglia amara/ già tutte non oblia l’arti e le frodi/, fa di sospir breve concento in prima/ per dispor l’alma in cui le voci imprima»

Gerusalemme liberata canto XVI vv. 344 -351
Nicola Colombel, Rinaldo abbandona Armida (XVII secolo)

Le differenze rispetto la Gerusalemme liberata sono molte e parecchio evidenti – in primis la predilezione per l’intimo dissidio di Armida tra l’amor patrio e l’orgoglio personale e l’amore per Rinaldo; secundum la carica drammatica affidata alla protagonista femminile che si rivela essere la figura centrale del dramma – tuttavia, i cambiamenti rispetto l’epopea tassiana erano ben contestualizzati nell’ambito barocco del tempo e soprattutto della corte francese di Luigi XIV: lo stile barocco con le sue ampollosità, la sua grandezza e magniloquenza, era particolarmente adatto a rappresentare l’autorità (sia questa politica o ecclesiastica) e la sua grandezza.

È interessante notare il destino peculiare che ha avuto la scrittura del finale per quanto riguarda la storia di Armida: fra tutte le opere trattanti questo tema, ben poche mantengono il finale lieto originale e molte si fermano alla fuga di Rinaldo e la rabbia di Armida che deciderà di inseguirlo sul suo cocchio trainato dai draghi; di sicuro si potrebbe pensare che un tale finale fosse stato fatto per la precisa scelta religiosa di non far sposare una pagana (se pur convertita verso la fine per amore del prode cavaliere) con un cristiano, oppure per i rapporti prematrimoniali avuti da Armida. Ma in realtà la spiegazione potrebbe essere dettata da precisi scopi tecnici: la riconciliazione dei due avrebbe dovuto seguitare alla conquista di Gerusalemme e ciò avrebbe negato l’unità d’azione aristotelica. Tuttavia, tale spiegazione non sembra essere sufficiente per quanto riguarda il libretto di Schmidt per l’opera di Rossini che ha esplicitamente respinto le unità; per lui la peculiarità di un finale di tal guisa era data dalla spettacolarità messa in atto che avrebbe utilizzato molte delle risorse del palco scenico. Quindi, un finale del genere potrebbe essere stato usato come metro di paragone fra le varie opere; una sorta di competizione che veniva a instaurarsi fra il nuovo compositore e le versioni precedenti.