La centralità del lavoro nel costituzionalismo italiano

La Costituzione italiana del 1948 rappresentò un cambio di paradigma estremamente profondo entro le logiche della storia contemporanea. A partire dalle rivoluzioni Americana e Francese, nacque il principio di causazione tra libertà e benessere. La convinzione, poi divenuta forma di organizzazione del sistema-paese, consisteva nell’affermare che dalla libertà dell’individuo, non più oppresso dalla logica feudale dell’aristocrazia e dalla monarchia, più precisamente dalla sua libertà di operare economicamente con altri individui, potesse nascere e progredire il benessere della società e dell’individuo stesso. Fu la stessa logica con cui duecento anni più tardi il Presidente statunitense Wilson propose i suoi Quattordici Punti nel gennaio 1918: applicò cioè le logiche filosofiche liberali e razionalistiche dell’Illuminismo ad una visione non più nazionale ma internazionale. Sono le stesse logiche che tutt’oggi stanno alla base dei consessi internazionali, uno tra tutti l’ONU.

Questo, sin dalle due rivoluzioni sopra citate, stette alla base del legame tra i concetti di “democrazia” e “liberalismo”, cioè di ciò che tanto spesso si sente pronunciare probabilmente ignorando di cosa si stia parlando: la democrazia liberale. I due termini infatti sono necessariamente legati: la democrazia rappresentativa e costituita da un Parlamento nacque di fatto nell’Età di Antico Regime, periodo in cui l’assemblea pubblica era divisa per ceto sociale. Proprio in questa differenziazione s’innesta la svolta epocale rappresentata dalla Costituzione italiana del ‘48. Osserviamone in particolare il primo articolo:

«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Il secondo comma è chiaro e sposa appieno la logica delle due rivoluzioni: la sovranità dello Stato e della Nazione non appartiene ad un singolo individuo ma alla collettività che vive in quel territorio. Il primo comma invece rappresenta un rivolgimento del paradigma liberale-illuminista estremamente profondo. Con le due rivoluzioni il paradigma che nacque si articolava in una logica di causazione in cui la libertà sta alla base della democrazia e la loro congiunzione determina il benessere dell’individuo e del popolo. Con il primo comma del primo articolo della nostra Costituzione il paradigma fu completamente rovesciato: la Repubblica Democratica si fonda sul lavoro, ovvero alla base della democrazia v’è il benessere dell’individuo e solo dalla condizione di benessere del singolo e del popolo può nascere la libertà e quindi la democrazia.

Infatti, il terzo articolo chiarisce perfettamente questo nesso:

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Gli ostacoli economici e sociali devono essere rimossi in quanto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, ovvero la partecipazione dei lavoratori alla democrazia del sistema-paese.
Vengono quindi definiti lavoratori e non cittadini coloro che partecipano attivamente alla democrazia. Anche in questo caso si evolve dal concetto rousseauiano dell’uomo in quanto cittadino con l’intenzione di rimarcare quanto già detto: è il lavoro, cioè il benessere, a permettere l’attuazione piena della democrazia.

Ebbene, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si cominciò a tradire questo concetto a favore della rivisitazione dell’arcaica dottrina liberale, che prese – e prende tutt’ora – i nomi di neoliberalismo e neoliberismo. L’Italia fu una democrazia liberale dal 1861 al 1925/26, divenendo poi un totalitarismo sino al 1943/45. Evolse quindi verso una nuova forma di stato e di democrazia rappresentativa a partire dal 1948: dopo i tre anni di limbo in cui operò l’Assemblea Costituente questa evoluzione prese corpo. Questa nuova forma di democrazia metteva al centro il senso umano e umanistico dell’organizzazione del sistema-paese, scomodo al potere economico-finanziario nazionale e internazionale, il quale necessita, per il proprio vantaggio, della libertà assoluta o semi-assoluta nata con le due rivoluzioni.

Entrammo quindi nell’Unione Europea nel 1992 e adottammo l’euro dieci anni dopo, regredendo al periodo 1861-1925/26. E ora il popolo ne sta pagando le conseguenze.
Fummo alla base di una rivoluzione storica ma negammo l’essenza di essa regredendo ad un modello antico e denso di contraddizioni sociali. Quando altrove nel mondo altri modelli nacquero e poi morirono, il nostro, la nostra civiltà, prosperava e rendeva al cittadino-lavoratore quella dignità da cui nacque e visse al pieno delle sue forze la democrazia parlamentare della Repubblica Italiana.

«Qui si vuole incidere nelle tavole del nuovo patto il segno di un orientamento nuovo: la rivendicazione dell’alta dignità del lavoro umano, rivendicazione che dev’essere il fondamento essenziale della Repubblica democratica italiana, conferendosi ai lavoratori il diritto di partecipazione effettiva, come dice il progetto, alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Da un discorso del Deputato all’Assemblea Costituente Guido Russo Perez, 14 marzo 1947.

di Matteo Modulon