Il Libro segreto di Gabriele D’Annunzio

La prima cosa che si nota affrontando i romanzi di Gabriele d’Annunzio è il fatto che i protagonisti non siano altro che delle maschere con cui l’autore vuole dipingere se stesso e la sua vita. Invero, l’idea di creare una propria autobiografia che possa lasciare ai posteri un’immagine di sé, è a lungo vagheggiata da D’Annunzio e troverà un’attuazione reale in una data ben precisa, il 25 novembre 1934, giorno in cui scriverà ad Alberto Mondadori: «ecco il primo fascio di pagine»; e ad Arnoldo: «La prima scelta fra le migliaia di pagine m’è stata più difficile che io non m’attendessi. Ma ecco che posso stasera consegnare ad Alberto le prime quaranta: definitive. intendo che il libro comincia così, senza mutamente e transposizioni: e continua sino alla fine». Il 25 giugno il libro viene edito, sorretto da una poderosa campagna pubblicitaria; la chiusura della storia elaborativa del Libro Segreto, segna l’ultimo sforzo della carriera letteraria di D’Annunzio dopo anni di silenzio.

Ma se veloce fu la pubblicazione di questa autobiografia, lenta e travagliata fu la sua ideazione (come tutte le opere dannunziane). Già nel Piacere (1891) compare l’espressione che si presterà ad essere il titolo del libro, infatti, Maria Ferres trova conforto e sollievo «in quella specie di confessione cotidiana affidata alla pagina bianca d’un libro segretissimo». Un passo della Leda senza cigno (1916) – «un lontanissimo ricordo fiorentino risorse nello spirito. Lo ritrovai nel libro segreto della memoria, alla data del 22 settembre 1899» – indica la fonte e l’incarnazione cartacea del “libro della memoria”, riprendendo l’incipit della Vita nuova di Dante; qui, in particolare, nel taccuino XXIX, riportante le impressioni suscitate alla vista della Leda soggiacente al cigno scolpita da Ammanati. Inoltre, nella Licenza, cioè la lunga prosa aggiunta al racconto della Leda, si trova: «apro a caso il libro segreto della mia memoria», tratto dal taccuino che sarà inserito totalmente nel Libro segreto vero e proprio. Spiegazione delle origini materiali del libro si trova nell’Avvertimento al primo tomo delle Faville del maglio (1924):

«Nel mio tempo fiorentino – or è molt’anni di studio e di azione e non di età, ché la mia età è sempre novella – ebbi per mano un libro d’un cronachista mercatante del trecento: una semplice cronaca della sua casa e della sua bottega, una “brieve menzione” de’ fatti segreti della compagnia e della mercatanzia, che a lui s’appartenevano, d’anno in anno. E nella prima carta del codice era scritto: “Questo libro è di Goro di Stagio Dati, e chiamerollo libro segreto”. Allora presi una grande cartella di cordovano fulvo, una vecchia legatura vedova a cui non eran rimasti se non il dosso e le due tavole e il motto d’oro Regimen hinc animi. E dentro vi raccolsi i primi fogli rinvenuti nel libro della mente che vien meno. E, di tratto in tratto, altri ne aggiunsi. E da quel tempo tenni quel cordovano come il mio libro segreto; e in una delle facce interne volli trascrivere il principio di Goro, che mi piacque: «Al nome di Dio Padre Figliuolo e Spirito Santo qui apresso farò memoria di certe speciali cose, a chiarezza di me e di chi fosse dopo me, che Idio ci dia grazia che siano buone.».

Nobilitato dai continui rimandi (Dante prima, un mercante ora), il libro inizia a formarsi e a precisare le sue linee fondanti: l’idea di una profonda introspezione affidata al motto di Goro “a chiarezza di me” nella misura del frammento. Da qui il nesso tra Faville e Segreto, confermato in un tardo progetto da intitolare Libro segreto la trilogia formata dai due tomi delle Faville e delle Cento pagine (il titolo originale del Libro segreto era infatti “Le Cento e cento e cento e cento pagine di Gabriele D’Annunzio tentato di morire”): il rinvio, implicito nella nozione di favilla, a un opus maius non scritto e non scrivibile se non per capitoli distaccati e centrifughi pare già definire l’unica condizione per dar vita al «libro della mente che vien meno»: che può farsi Libro solo nella negazione costruttiva, come non-libro.

Ma a ben vedere, il Libro segreto non fu il primo tentativo di autobiografia da parte di d’Annunzio; i primi veri tentativi risalgono ai primi decenni del Novecento quando, per fuggire dai creditori, si rifugiò in Francia. Lì, aiutato dalla condizione di isolamento e da una scarna biblioteca, avviò una serie di tentativi volti a trovare la dimensione autobiografica a lui più confacente: non più pago dell’autobiografismo insito nei suoi personaggi, ma non ancora pronto a una vera soluzione alla classica autobiografia. All’inizio questa iniziativa assume l’aspetto di prose sparse e slegate, appunto le Faville (che ben rendono quest’idea di illuminazione subitanea e temporanea che porta immediati spaccati di vita e di ricordi), pubblicate sul Corriere della Sera. Successivamente, risale al 1922 il progetto di Eugenio Coselchi di scegliere dall’opera dannunziana, specialmente dalle Faville del maglio, i passi più direttamente autobiografici e di rimontarli in sequenza cronologica, scandita in capitoli che ben riassumano le fasi del «vivere inimitabile». Ma l’idea si protrae a lungo e d’Annunzio tarda a mandare il suo consenso; inoltre, la Prefazione da lui a lungo vagheggiata, non vedrà mai la luce. Il 20 giugno 1925 lo scrittore si mostra adirato per il fastello non ancora uscito (Il Fastello della Mirra era il titolo prescelto, paragonante il fascicolo di fogli a una fascina degli arbusti dalla resina profumata). In effetti, questa biografia, vedrà la luce solo nel lontano 2004. Una causa di questo fallimento potrebbe essere l’accordo già intrapreso da D’Annunzio, mediatore Arnoldo Mondadori, il novembre del 1929 con un editore americano: John Holroyd Reece. Il 23 marzo comunica di essere già a lavoro al libro:

«[…] sto scrivendo le mie memorie. Il titolo del libro è questo: Favola breve della mia vita lunga (short story (or fable) of may long life)».

Copertina originale delle Faville del Maglio

Ma meno di un anno dopo il progetto è già fallito. L’idea perfetta dell’immagine che D’Annunzio voleva lasciare ai posteri si sta concretizzando nella sua testa: nelle prime bozze del Segreto compaiono brevi titoli che affiorano nel carteggio del 1930 – 1933 come possibili titoli dell’opera, ma quello che si impone con più decisione è Erbe, parole e pietre. Con una lettera datata 21 ottobre 1933 a Domenico Bartolini promette l’opera alle edizioni dell’Oleandro: «Vacillando ormai l’obbligo mio verso l’editore americano John Holroyd Reece, per quella Favola breve della mia vita che, sciolta dall’errore del tempo e dall’errore dello spazio, s’è convertita in quella somma di esplorazioni e di introspezioni intitolate «Erbe parole e pietre» divise in tre tomi: de’ quali il primo è per cosa da me affidata in questo anno al Sodalizio […]». Di questo libro fa tirare alcune prove di stampa; pochi frammenti che confluiranno nel Segreto.

Ancora una volta la sua autobiografia viene nobilitata da un colto rimando culturale, in questo caso il motto eponimo di Giordano Bruno («Erbe parole et pietre sono materia di virtù a presso certi filosofi matti e insensati»), a cui però si aggiunge quello di Eleonora Duse ripescato in un Taccuino del 1900, così da declinare in senso schiettamente autobiografico la follia e l’insensatezza: «La follia non è più ricca di te». Il 24 novembre 1934 inizia, quindi, la storia palese del Segreto con una lettera inoltrata a Mondadori con le prime cartelle del manoscritto: «Abbandonando il titolo Erbe parole e pietre, desidero pubblicare la massima parte del Segreto per numero di pagine: quattrocento, cinquecento, etc.».

Dunque, il filo conduttore dell’intera vicenda è la liberazione dalla «stolta autobiografia», il progressivo liberamento dall’ «errore dello spazio» e del «tempo». D’Annunzio era un lettore accanito di biografie classiche e recenti, tuttavia era consapevole che l’unico uso che ne potesse fare uno scrittore contemporaneo era volto al rifacimento totale. Il riferimento più concreto derivava dal genere diaristico radicato in Francia, ma la consecuzione temporale precisa che il genere richiedeva andare contro ciò che lui aveva in mente; nemmeno la geniale soluzioni proustiana della Recherche du temps perdu basata sullo scorrere del tempo trovò la sua approvazione, derivante dal fastidio provato per la natura sintattica della prosa di Proust e ciò si trasformava in un sostanziale fastidio per l’intero edificio costruito dall’autore in questa poderosa opera («Osare dichiarare il giudizio su Proust – spiegare che l’arte è lontanissima da certi trattati quasi specifici fondati sulla memoria fallace»).

copertina originale del Libro segreto

Punto focale attorno cui ruota il Segreto è la follia, lo smarrimento della ragione che intercorre all’interno dell’intero libro (la Via Crucis si chiude con il motto “Daimònion èchei kai màinetai” cioè “è in preda a un demone e delira”; mentre, il Regimen hinc animi si chiude con «Tra’ miei molti tetrastici o tetrastichi dispersi ho ritrovato questo in un foglio volante con la data 9 marzo 1902.  L’ho qui trascritto il 3 aprile 1922.  Vent’anni. E la mia deserta conoscenza quadrata, la mia concisa disperazione, è tuttavia questa: unicamente questa, immutabilmente questa.

Tutta la vita è senza mutamento.

Ha un solo volto la malinconia.

il pensiero ha per cima la follia.

E l’amore è legato al tradimento»)

. «Non ho certezze» «Non v’è scopo, non v’è meta, non fine nell’Universo; e non v’è dio: tutto riconduce all’«insignificanza» che, mutatis mutandis, è il messaggio principale del Segreto; e se questa mancanza di senso nella vita è il messaggio principale lasciato trasparire da D’Annunzio, pienamente giustificate sono le sue scelte linguistiche ed espressive: il rispetto della frammentarietà degli appunti che compongono il libro, legati insieme senza alcun apparente filo logico; il «biancore» di una sintassi tendente ad una linearità non intaccata dalla revisione, ma semmai consolidata da una politura solo lessicale, o solo ritmica, per tocchi minimi, spesso solo interpuntivi o tipografici (e a tal fine D’Annunzio uniforma tutti i plurilinguismi al testo, abolendo quindi il corsivo). Intorno a quest’asse conoscitiva il libro trova una sua unità: giustifica lo scomporsi e il frantumarsi della prosa unitaria di cui D’Annunzio ha tentato di informare il suo autoritratto, nell’identità di arte e vita: dà un senso al rapporto di contraddizione, spesso di palese reciproca smentita, che corre tra i diversi lacerti; sacrifica lo sfarzo meditativo nella asciutta e un po’ criptica gnomicità del motto; adegua allo svincolo da un’architettura narrativa orientata nello spazio e nel tempo (sintassi nel senso più lato), la riduzione della sintassi (in senso stretto) a lineare sillabazione, a pausata e sgretolata paratassi, aliena da ogni razionale costruzione subordinativa. Il libro viene a formarsi attorno a questa immediatezza di associazioni casuali e impreviste analogie fra oggetti nello spazio e nella memoria: parole come erbe e pietre; labirinto indecifrato, e forse indecifrabile se non dalla follia dei filosofi matti e insensati.

Il libro è composto da tre sezioni: Avvertimento, Via crucis via necis via nubis, Regimen hinc animi.

La Via crucis si presenta come una “favola breve” fondata su una disposizione lineare e cronologicamente piana degli eventi narrati. Attenzione però a interpretare questa sezione come un’autobiografia nel senso reale del termine; essa si presenta più come un susseguirsi segmentato e discontinuo di una serie di episodi esemplari tutti imperniati intorno al motivo centrale di questa sezione: l’intento suicida. Gli undici episodi della Via crucis emergono come picchi nel deserto: solo i particolari rivelatori della tentazione mortale affiorano, relegando il resto alla tesi, al rango di vuoto, all’insignificanza. La Via crucis è un’agiografia e come tutte le agiografie presenta dei segni premonitori che lasciano già intravedere il destino del giovane Gabriele: un destino di morte. Quindi, agiografia sì, ma in senso negativo, nel segno di un martirio senza senso e senza fede; rappresenta e disegna, all’imprevista insegna della tentazione della morte, il libro dell’altra sua vita, l’altro suo cuore, il versante cupo e notturno del poeta solare.

Immagine raffigurante l’arcangelo Gabriele, a cui spesso D’Annunzio si paragonava

Il Regimen hinc animi rappresenta il Libro segreto vero e proprio e si presenta come un compendio di frammenti derivanti dal Taccuino, di poesie non pubblicate e dalle farneticazioni trascritte dai dottori dette durante lo stato di semincoscienza a seguito della caduta dal balcone, ovviamente fatta passare come un tentativo di suicidio; proprio questo episodio, che lui, ironicamente, chiamerà il «volo dell’arcangelo» sarà alla base del libro: leggendo le frasi che aveva pronunciato uscendo dallo stato di semincoscienza trovò l’idea della scrittura per libere associazioni mentali che caratterizza l’intera sezione. Per la sua natura composita e frammentistica, il Regimen rinvia al genere delle confessioni, o, ancora, a quello dei pensieri e di sicuro non può essere escluso un legame con il frammentismo vociano, specialmente per l’autobiografismo metafisico. Incallito positivista, D’Annunzio non poteva che far scaturire da sé quel “mistero” e quella “follia” se non da una causa reale e tangibile, appunto la patologia mentale causata dalla caduta dal balcone (anche se, in realtà, questa è solo una delle tante esagerazioni operate da D’Annunzio così da glorificare se stesso; il responso dei medici, infatti, non è assolutamente catastrofico come lo stesso poeta vuole lasciare intendere e, soprattutto, non v’è traccia di trauma cranico con conseguente patologia mentale) che gli fa intraprendere quel sentiero verso l’ignoto che lo stesso – non ignorato – Agostino aveva percorso (anche se con metodologie molto distanti da D’Annunzio) nelle sue Confessioni a rivelazione di sé.

Il Regimen è enunciato da una lingua quasi per se stessa mossa che alla fine della Via crucis viene fatta risalire a un demone (appunto, un’agiografia profana non poteva che avere un’ispirazione demoniaca, così come un Amore in figura angelica ispirò Dante a scrivere di Beatrice) e ribalta gli assunti proposti nella seconda sezione del libro: là prevalgono i pieni sui vuoti; nel Regimen invece la poliedrica varietà dei temi, dei modi, dei metri produce una visione corpuscolare; introduce nella penombra dell’animo dannunziano. Riflessioni estetiche, ricordi, fantasie, impressioni, sogni, versi, memorie di orge e postille erudite, brani di racconto e motti sentenziosi si susseguono senza ordine apparente, realizzando per spaccati di vita vissuta o di vita “cerebrale” la summa dell’esperienza dannunziana.

Veniamo infine all’Avvertimento che apre il libro; le poche pagine, numerate in lettere alfabetiche, che lo compongono sono firmate Angelo Cocles, da cocles, orbo, e ànghelos, angelo o nunzio (e infatti D’Annunzio si firmò «Gabriel Nuncius» in un codice delle Laudi donato alla Duse), quindi, questa fantomatica figura che si dice allievo del Vate, altro non è che l’ennesimo alter-ego di D’Annunzio stesso, l’ennesima maschera a cui ricorre per celare la sua identità e per legittimare l’inizio del Libro segreto e darne la chiave di lettura. Infatti, la presenza in apertura di questo alter-ego, lascia trasparire la consapevolezza della propria incapacità di congregare il suo vissuto, le sue esperienze, il suo animo in un messaggio narrativamente conchiuso, ma lascia trasparire anche la consapevolezza del recupero della propria capacità di espressione. Autocoscienza del limite della virtù, dunque: essa nasce dall’unica possibilità di dire che egli abbia, la fedele congregazione dei materiali compositi. Di qui il rapporto che D’Annunzio instaura con Angelo Cocles promuovendo sé a oggetto d’indagine: rapporto inverso a quello che lega, ad esempio, Zeno a Svevo; in lui la gestione in prima persona del libro, e l’abolizione di un personaggio-schermo confermano una consapevolezza di sé talmente solida da consentire persino un calcolato distacco; mentre D’Annunzio è costretto a affidare all’ipostasi-finzione di un “altro”, e al suo responso, le linee di un autoritratto che non conosce e non controlla. Ma ancor più importante è il fatto che questa sezione sia dominata dal tema musicale, come se D’Annunzio volesse avvertire preventivamente il lettore che sarà la poetica sui cui l’intero libro farà perno, che incornicerà l’intera sezione della Via crucis e del Regimen. La sequenza delle parti è significativamente inversa rispetto alla loro reale composizione: dalla coscienza del frammentarsi del proprio io (Regimen) è nata la possibilità di delineare, in negativo, un proprio ritratto (Via crucis): dal loro intreccio la possibilità di individuare nella volontà musicale dell’Avvertimento la cifra unitaria dell’altro suo libro e dell’«altra sua vita».